Processo Bros: una sentenza politica!
Si è concluso con la sentenza di primo grado il processo cui erano coinvolti diversi componenti del movimento di lotta dei disoccupati Bros con l’accusa di vari reati, tra cui quello più grave di “Associazione a delinquere”. Nonostante l’assoluzione per alcuni dei reati contestati, la maggior parte dei disoccupati coinvolti è stata comunque condannata. Il bilancio è pesante: due anni e sei mesi per due di loro, un anno e sei mesi o un anno per gli altri, condanne al risarcimento per presunti danni provocati durante le azioni di lotta e per le spese legali. Il fatto che per molti di loro la pena sia sospesa provvisoriamente non l’alleggerisce profilandosi, invece, come una condanna aggiuntiva finalizzata all’immobilismo, una vera e propria spada di Damocle su attivisti costretti ancora oggi a mobilitarsi per superare una condizione lavorativa precaria e garantirsi quel lavoro stabile per il quale hanno lottato e sono stati repressi per anni.
Ancora più grave è il mancato rigetto da parte del giudice dell’imputazione di Associazione a delinquere, che se non ha pesato sulle condanne è solo perché nel frattempo erano stati i superati termini della prescrizione.
Una sentenza politica, dunque, che, malgrado la maggior parte dei reati specifici si siano rivelati inconsistenti, si vendica anche a distanza di anni di quanti hanno osato mettere in discussione questo sistema di sfruttamento.
Le lotte sociali e proletarie, a meno che non si contentino di rimanere nell’ambito di innocue sfilate, non possono rimanere impunite a costo di trasgredire ai tanto sbandierati principi della democrazia formale, inventando di sana pianta nuove forme di reato o rafforzando spropositatamente le pene per quelli già esistenti.
In particolare, attraverso il reato di associazione a delinquere, si criminalizza il concetto stesso di lotta organizzata per affermare i propri bisogni in quanto si ipotizza che le rivendicazioni per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro e le mobilitazioni messe in atto per conseguirle rappresentano una indebita pressione e violenza estorsiva che configura una vera e propria associazione criminale. In pratica lo Stato e la sua classe dominante attraverso la repressione poliziesca e giudiziaria puntano a rendere eversiva la lotta di classe in quanto tale. Quindi assistiamo non solo all’aumento della repressione e delle pene per i singoli atti di lotta: dai blocchi stradali ai picchetti davanti ai posti di lavoro, dall’interruzione dei pubblici servizi al reato di resistenza per il semplice fatto di non aver ottemperato agli immotivati ordini della polizia, ma appunto alla configurazione di una nuova fattispecie di reato, traslato di sana pianta dal contrasto alla criminalità organizzata alle lotte sociali e politiche.
Un tentativo di sterilizzare per la via giudiziaria e repressiva ogni malessere sociale che si trasformi in rivendicazione collettiva. Chi, invece di affidarsi alla soluzione individuale, alla pietà delle organizzazioni umanitarie, alla ricerca del supporto clientelare o alle eventuali concessioni che lo stesso stato decide di mettere in campo -a cui accedere singolarmente e previa dimostrazione di essere un fedele cittadino-, si organizza e lotta per il proprio diritto a vivere decentemente viene per questo stesso motivo associato alla logica criminale.
Mentre assistiamo a continue proposte e provvedimenti legislativi che puntano a ridurre i reati perseguibili e le pene, ma anche la stessa possibilità di indagare, per truffe, corruzioni, collusioni mafiose ed altri reati commessi da politici, imprenditori ed affaristi, in nome di un garantismo più che sospetto, si rafforzano i provvedimenti e gli strumenti repressivi contro le lotte proletarie. Il decreto sicurezza del governo Meloni ne è la più recente dimostrazione. L’aumento delle pene fino a sette anni per l’occupazione di case o altri immobili, l’estensione del “DASPO urbano”, l’aumento delle pene per blocco stradale e per minaccia e resistenza a pubblico ufficiale, l’introduzione di aggravante per chi imbratta beni mobili e immobili adibiti ad esercizio di funzioni pubbliche, l’introduzione del delitto di rivolta nelle carceri e la condanna fino a sei anni per gli immigrati che si ribellano ai lager chiamati centri di accoglienza o rimpatrio, ed altro ancora, vanno a colpire esattamente chi si rifiuta di accettare passivamente la propria condizione di miseria.
Così, da una parte i responsabili di malversazioni, di rapine del denaro pubblico, di vere e proprie stragi sul lavoro o dell’avvelenamento delle popolazioni e dei territori, finiscono puntualmente assolti o condannati a pene risibili, dall’altra un proletario o un attivista politico rischia anni e anni di carcere per un semplice blocco stradale o, nel caso di estensione dell’utilizzo del reato di associazione criminale, addirittura decenni nelle patrie prigioni.
L’attuale processo agli ex disoccupati Bros, insieme alle altre persecuzioni subite, si inserisce a pieno titolo in questa tendenza che si va affermando da decenni e ha visto protagonisti i diversi governi che si sono succeduti e tutte le correnti della magistratura che, quando si tratta di difendere il potere costituito e la legalità fondata sulla proprietà privata e sul profitto, si rivelano un ganglio vitale a tutela del potere borghese e del sistema di sfruttamento capitalistico.
Insieme ai disoccupati, in questi anni, ne hanno fatto le spese i movimenti di lotta per la casa, quelli contro la devastazione e la militarizzazione dei territori e soprattutto i lavoratori della logistica che subiscono un vero e proprio stillicidio di repressione e processi perché si oppongono indomitamente alle brutali condizioni di lavoro e di super sfruttamento cui sono sottoposti.
Ma si sbaglierebbe ad interpretare questa accentuazione della natura classista della giustizia e della repressione solo come un fenomeno di vendetta sociale da parte delle classi dominanti per sfruttare a proprio favore i mutati rapporti di forza e rinsaldare il proprio potere politico ed economico. Questa componente sicuramente svolge un ruolo non secondario, ma vi è qualcosa di più profondo che spinge all’inasprimento della repressione e a predisporre dispositivi legali e giuridici sempre più oppressivi per le classi subalterne e sfruttate. Si tratta in realtà di una blindatura preventiva del potere costituito dettata dalle incertezze e dalle difficoltà che questo sistema sociale fondato sul profitto sta attraversando negli ultimi decenni e che si vanno incancrenendo sempre di più. Difficoltà che aumentano nonostante la crescita dello sfruttamento e dei profitti che hanno potuto realizzare in questi anni nelle stesse metropoli occidentali e nonostante la politica di crescente rapina e saccheggio condotta verso i popoli del resto del mondo. Contraddizioni che rischiano di esplodere in maniera virulenta mettendo in discussione tanto la pace sociale interna quanto il dominio internazionale da parte delle principali potenze mondiali occidentali. È questo il vero motivo che accentua la spinta tanto verso una legislazione sempre più autoritaria sul piano interno quanto verso un crescente interventismo militare soprattutto verso quei paesi e quei popoli che si rifiutano di sottostare ai diktat e al dominio oppressivo esercitato dalla grande finanza e dal grande capitale occidentale.
Non vi è dubbio infatti che la stretta repressiva in atto e più in generale la trasformazione in senso apertamente più autoritaria di tutte le istituzioni statali è assolutamente spropositata rispetto alle dimensioni reali del conflitto sociale degli ultimi anni. Tale stretta repressiva procede in maniera inversamente proporzionale al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro e, per quanto il proletariato sia in una situazione di sostanziale disorganizzazione e di mancanza di unità, è prevedibile che l’attuale condizione di sfiducia e passività verso la possibilità di difendere i propri interessi collettivi con la lotta sia destinata a non durare a lungo. Ecco perché assistiamo ad ossessive campagne di stampo securitario in cui le difficoltà e le insicurezze dei cittadini vengono fatte risalire al presunto aumento della criminalità, alla crescente presenza di immigrati, ai pericoli provenienti da un indefinibile ed inafferrabile “nemico esterno” contro cui è necessario rafforzare il potere degli organi di polizia e degli altri apparati repressivi; ogni incrinamento della pace sociale interna, ogni conflitto che ripropone lo scontro tra le classi viene additato come nefasto per l’unità nazionale necessaria a difendersi dai pericoli esterni. Pericoli contro cui si moltiplicano le missioni militari all’estero e attraverso cui si giustifica la crescente spesa militare per difendere i “nostri” interessi. La scelta di concentrarsi sui settori sociali più combattivi, ma oggettivamente anche più marginali della classe, consente di creare un relativo consenso verso la crescente ristrutturazione repressiva, in quanto essa viene presentata come indirizzata esclusivamente contro settori appunto marginali della società che con le loro intemperanze mettono in discussione la pacifica convivenza civile che tutti i cittadini avrebbero interesse a mantenere e rafforzare.
Da tutto ciò deriva per noi la necessità non solo di rafforzare ed estendere i movimenti di lotta in difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro, unica condizione per invertire gli attuali sfavorevoli rapporti di forza, ma anche di denunciare la natura apertamente classista della crescente stretta repressiva; di evidenziare come essa sia indirizzata preventivamente contro l’intero proletariato e contro tutti coloro che intendano ribellarsi alle conseguenze sempre più intollerabili del dominio capitalistico che presenta esplicitamente il suo carattere disumano e mortifero pur di difendere i profitti ed i privilegi della classe dominante.
Come movimento di Banchi Nuovi e quale componente decisiva della lotta per il lavoro che in questa vicenda giudiziaria ha pagato le maggiori conseguenze intendiamo reagire a questa sentenza esattamente sulla base delle considerazioni e della consapevolezza sopra esposte.
Un invito a tutte le componenti sociali in lotta, a tutti gli attivisti anticapitalisti a rafforzare le occasioni di unità fondata su obiettivi comuni, a trasformare la denuncia e la lotta contro la crescente repressione come un aspetto non occasionale ma costante delle nostre iniziative e mobilitazioni.
Gli attestati di solidarietà che abbiamo ricevuto per la repressione subita dagli altri settori di movimento sono per noi un segnale incoraggiante di tale consapevolezza, ma auspichiamo e ci muoveremo nella direzione di trasformare tale solidarietà in un percorso comune di resistenza ed opposizione alla crescente repressione che sappia rivolgersi agli altri settori proletari per indicare come l’aperta repressione che oggi colpisce solo settori limitati della classe è in realtà un monito ed una minaccia per l’intero proletariato contro cui è necessario reagire unitariamente da subito.
BANCHI NUOVI – SINDACATO OPERAI in LOTTA COBAS